Solitamente il termine indie rock serve a descrivere gruppi emergenti, difficilmente riconducibili a un genere unico compreso tra un vario caleidoscopio di sottogeneri, quindi, come dire, tutto e il contrario di tutto. Secondo la mia libreria iTunes anche l’ultimo lavoro di Paul Weller viene catalogato sotto il genere indie rock. Beh potrebbe esserci qualcosa da obbiettare, ma andiamo con ordine, perché il primo ascolto è quello che ti lascia subito qualche dubbio, il secondo rimanda i dubbi al terzo e così via. Quindi, per potermi fare un’idea su questo disco, gli ascolti sono stati già svariati.
Certo Paul Weller è un’icona britannica, una sorta d’istituzione nazionale, che ormai, scavallata la china dei cinquant’anni, inizia a subire i primi colpi della nostalgia (?), volendo però dimostrare una gioventù che non gli appartiene. Questa è l’impressione che si percepisce in Sonik Kicks, un gran guazzabuglio, di passato e presente, tra reminiscenze kinksiane e elettronica, che, in qualche modo, ammicca fortemente al Bowie della trilogia berlinese. Che Weller attraverso 22 Dreams, Wake Up the Nation e questo Sonik Kicks abbia voluto proporre la propria trilogia ripercorrendo le orme del Duca Bianco? Direi che l’accostamento suona quasi blasfemo, soprattutto prendendo come punto di partenza quest’ultimo disco, che indubbiamente richiama lo sperimentalismo anni Novanta di Bowie con almeno vent’anni di ritardo.
Ma siamo obbiettivi, Sonik Kicks è un disco che pur non lasciando niente, si ascolta piacevolmente, un sottofondo ritmato e variegato, con forse un piccolo eccesso di suoni sintetizzati. Ma fermandosi a riflettere l’impressione che si ha è che ci sia tutto e niente. Già con “Green”, traccia d’apertura, si ci ritrova spaesati da un suono elettronico un po’ fuori posto, quasi fastidioso, per poi passare all’easy listening vagamente brit pop di The Attic e Dragonfly, attraversando il ritmo travolgente di Kling I Klang, o gli intermezzi strumentali come Sleep of the Serene; non mancano le ballate degnamente rappresentate da By the Waters (forse uno degli episodi più riusciti del disco). E che dire del revival anni Ottanta di That Dangerous Age? E si, alla fine c’è anche un vago spirito indie rock che aleggia su Around The Lake e Paper Chase, insomma c’è tutto, un perfetto catalogo musicale presentato in quattordici tracce. Non riesco a dare un giudizio del tutto negativo, perché qualcosa di fondo “funziona”, ma nel contempo, mi è assolutamente impossibile dire che è un disco che mi ha colpito. Ovvio, a certi livelli s’inizia a parlare di dischi più o meno riusciti, più che belli o brutti, e questo – sorvolando sulla banalità brano di chiusura, Be Happy Children, dal sapore troppo sdolcinato e con vaghi echi springsteeniani – non è sicuramente tra i migliori di Paul Weller.
di Francesca Ferrarri
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