Un disco moderno, imbevuto di sciroppi acid rock anni Sessanta, ma anche antico, come una vecchia anima rivestita di velluti e broccati lussuosi dell’Ottocento
Ventotto minuti. Una mezz’ora scarsa di musica per uno dei dischi più influenti del panorama francese e del mondo tutto. Lo-li-ta. Me-lo-dy. Come nel capolavoro di Nabokov, la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti.
Histoire de Melody Nelson non è semplicemente un disco. È un mondo a parte; due occhi spiritati azzurri e verdi come isole in cui perdersi nella notte.
Sono passati quarant’anni dalla sua apparizione, in sordina. Serge Gainsbourg e la compagna di vita Jane Birkin avevano scandalizzato il mondo intero dando voce e corpo al Sessantotto, sospirando e gemendo sull’organo dalla patina liturgica di Je t’aime moi non plus. Il Vaticano era insorto; quel dischetto di vinile innocente venne bandito dai paesi più bigotti; in tanti lo ascoltavano come reliquia clandestina. Come racconta oggi Jane, divertita: «quella canzone ci ha permesso di vivere sereni per molti anni.» E ha permesso a Serge di cimentarsi in alcuni dei suoi migliori lavori.
In Je t’aime – così casta – c’era già tutto il gusto raffinato che Serge avrebbe infuso nei dischi successivi: il colto e intenso Jane Birkin – Serge Gainsbourg, in cui erano ospiti pungenti il suddetto morigerato cerimoniale per coppia e altre canzoni crudeli sul (non) amore come L’anamour, Le canari est sur le balcon e Jane B. Le provocazioni care a Serge continuavano con 69 année erotique e Les sucettes, quest’ultima cantata in origine dalla dolcissima France Gall. Ah, beata ingenuità! Era convinta di succhiare un candido lecca-lecca. Non immaginava quanto veleno si potesse nascondere in quel bon bon al miele. Oppure, chissà?, l’adorabile France, da vera nasty girl, aveva capito perfettamente il senso della canzone mentre tutti erano in preda all’ipnosi collettiva.
Serge lavorava da tempo a un’idea strana e bella. Nell’anno del Signore 1968 aveva scritto sul quadernetto di Jane, in rosso e nero: «Per Jane Mallory, a cui dedicherò la storia di Mallory, ovvero la storia di Melody Nelson, Je t’aime», e nell’altra pagina, «Moi non plus.»
La gestazione del disco fu lunga e laboriosa. Due anni di lavoro febbrile, otto ore per scriverlo. Siamo nel 1971. Fiamme e rivolte sono un ricordo lontano.
Histoire de Melody Nelson racconta una storia di amore e morte. Il concept album in sette atti si snoda flessuoso e circolare su ventotto minuti di musica nuova, che si libra meditativa a mezz’aria, come se levitasse leggera in contrapposizione alla disperazione delle parole, scolpite nel fango di un dio vendicatore e crudele a cui è impossibile dispensare gioia. Certo, a Serge Gainsbourg piaceva fare la parte del vieux cochon, e Jane Birkin vestiva alla perfezione il ruolo della bimba sperduta. Ma nella fantasia Serge, allora appena quarantenne, si vedeva uomo di mezz’età alle prese con una ragazzina considerata poco più che pubescente, nonostante avesse già quatorze automnes et quinze étés.
Jane Birkin interpretò la sfortunata Melody Nelson alla perfezione. La copertina la ritrae a seno nudo, coperto da una scimmietta, in jeans sdruciti e parrucca rossa. Jane era incinta della loro prima e unica figlia, Charlotte.
Che strana sorte. Una bambina-donna, una ninfa dolce e innocente che per vivere nella grazia eterna deve morire. O morire di vita piatta, come la Lolita di Nabokov, sfatta e gravida e priva di ogni shining adolescenziale.
Il disco si apre con Melody, sette minuti di psichadelia dolceamara tardo sixties. Le chitarre sono semplici ed essenziali, quasi funk, suonate in staccato; un basso ipnotico pulsa pressante in primo piano lungo quasi tutta la durata dell’lp. Sullo sfondo, poche sparute note di piano in glissato; gli archi eseguono le armonie in un dolcissimo unisono, ognuno nel suo range strumentale. Gainsbourg volle un coro di ben settanta elementi per sottolineare i passaggi più drammatici della breve storia di questa ragazzina dai capelli rossi – c’est leur couleur naturelle.
L’incontro fatale tra i due ha il sentore della violenza che segna i riti di passaggio, come l’iniziazione al sesso della protagonista. L’uomo viaggia pascendosi nella sua Rolls Royce, rapito dallo spirito dell’estasi, trasognato, lungo una via periferica di Parigi. Perde il controllo dell’auto e urta una ragazza in bicicletta, facendola cadere sull’asfalto come una bambola di pezza.
«Tu t’appelles comment? – Melody – Melody comment? – Melody Nelson»
Melody è inglese come Jane, innocente Ballade de Melody Nelson, in cui noi, voyeur consapevoli, scopriamo che questa deliziosa, piccola, adorabile idiota, non ha mai abbracciato nessuno.
Ben presto la musica cambia e i tre quarti di Valse de Melody suonano affabili quanto Ah! Melody, vivido sentore dell’infatuazione del protagonista, deciso a farle conoscere l’amore in un Hôtel particulier dalle splendide colonne rococo, che fanno da sfondo muto al rimescolamento degli umori.
La storia tutto sommato non è niente di speciale. L’abbiamo letta e sentita mille volte; le abbiamo dato il volto di Sue Lyon o quello delle ninfette che hanno colorato il nostro occhiuto mondo adolescenziale.
Ma la vera grandezza di questo album risiede nella dicotomia che lo abita. È un disco moderno, imbevuto di sciroppi acid rock anni Sessanta, ma anche antico, come una vecchia anima rivestita di velluti e broccati lussuosi dell’Ottocento. Ecco, è qui la grandezza impalpabile di Gainsbourg, che sussurra all’orecchio malinconie licenziose su ragazzine destinate a morire nel fiore degli anni perché la loro perfezione non venga sciupata. La sensualità di quella voce matura, profonda, di catrame fresco; l’acerba bellezza della gioventù, spiraglio dorato dell’esistenza; il perfetto matrimonio tra band e orchestra; la vertigine degli archi vaporosi, soffici: Histoire de Melody Nelson fu quasi un flop quando uscì – solo quindicimila copie vendute in Francia, e praticamente nessuna nel resto dell’Europa – ma seppe rivalersi nel corso degli anni, facendosi culto per i musicisti più giovani. Gli Air non sarebbero esistiti senza il contributo fondamentale di questo disco, né Beck avrebbe forse creato certe melodie sghembe e ironiche.
Ma Melody, benché mineure détournée de l’attraction des astres, è con noi per restare, incantata irripetibile melodia circolare.
Quegli occhi azzurri e verdi ci scrutano ancora oggi, pigri e lenti, come forse ci scrutano le nuvole dal cielo, indifferenti alle sorti umane.(MYWORD.IT)
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