The King Of Limbs
Radiohead
Voto: 4 STELLE
Voto utenti: 4 STELLE E MEZZO
Casa discografica: www.radiohead.com
Anno: 2011
Dal dizionario 24.000 dischi
Radiohead
Sono una Radiotesta di seconda generazione, mi ha incantato la musica da Kid A in avanti e questo nuovo album, ancora più dei precedenti, mi premia. Ora venga pure qualcuno a dire che i veri Radiohead sono stati quelli di The Bends o Ok Computer; con canzoni come queste diventa difficile, molto difficile. Il fatto è che Thom Yorke ha attraversato il deserto e, disco dopo disco, ha stravolto i tratti somatici della sua creatura arrivando lontanissimo da dov’era partito. Per naturale inclinazione e lucido calcolo, ha operato per sottrazione e non per addizione, come a tutti viene da fare nel mondo del Turgido e del Roboante. In The King Of Limbs le canzoni non sono blocchi imponenti o alti pinnacoli e forse non ci sono più nemmeno “canzoni”, almeno come le avremmo dette fino a ieri, e neanche ritornelli, riff, perfino strumenti definiti. All’ascolto sprizzano bolle sonore trasparenti, colorate gelatine impalpabili che si depositano sulle orecchie per scivolare dentro, nella mente, nello spirito. L’energia non scuote i brani muovendoli come mostricini verso il nostro apparato sensoriale ma li solletica nel profondo, un brivido che increspa la superficie; lì scivola la voce di Yorke, un lamento accorato, un sommesso urlo di stupore, di gioia, di dolore. Anche sotto questo profilo non sono “canzoni” nel senso di prodotti per il consumo. Sono pensieri ad alta voce, evanescenti pezzi di vita che immagino ogni giorno diversi; mi stupirei molto se negli show dal vivo li ritrovassi pari pari. (Gli show dal vivo, ecco un aspetto da prendere in considerazione. L’enorme popolarità della band contrasta con la sottile delicatezza di questi brani, che avrebbero bisogno di spazi limitati, discrezione, rispettosa accoglienza. Triplo punto interrogativo).
Sono otto brani, poco più di 30 minuti – una scelta intonata al progetto. Tempo fa Thom Yorke ha collaborato a una magica opera di Flying Lotus, Cosmogramma, e qui ne ritrovo stimolanti tracce, a cominciare dall’elusivo inizio di Bloom, con lo screziato intarsio della sezione ritmica. Il “brano di lancio” è invece Lotus Flower, e una volta ancora siamo lontanissimi da abitudini, convenzioni e bpm obbligatori per passare in radio/TV. Il pezzo più breve, Feral, è anche il più ombroso, con un ritmo stretto incalzante e il respiro delle macchine che pare un rantolo, a inghiottire in fretta un canto ridotto a pura balbuzie. Ma io cerco la luce e la trovo in fondo alla malinconia di Codex (con l’unico pianoforte ben scolpito dell’album) e, più sfolgorante, in Give Up The Ghost. E’ il pezzo che preferisco, per l’abbandonata bellezza del canto/chitarra e il fantasmatico dialogo tra la voce di Thom e un coro digitale di alter ego. E poi torno giovane, mi sembra di stare sulla tolda del Mayan, la goletta di David Crosby, e ascoltare le voci dall’acqua, ammirare gli spazi immensi e meditare sulla vita, la sua bellezza, i suoi segreti.
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