L’Italiano del Mese: Non Voglio Che Clara, ‘Dei Cani’
Quando una band riesce a riscuotere ampi consensi da parte di critica ed appassionati, ma poi non propone un nuovo album per molto tempo, riceve sempre molte attenzioni nel momento del ritorno. Ottobre 2010 ha visto addirittura due di questi rotorni importanti: quello dei Massimo Volume e quello dei Non Voglio Che Clara. Abbiamo scelto, in questa sede, di parlare del nuovo lavoro, uscito per Sleeping Star, del gruppo bellunese capitanato da Fabio De Min: vediamo se le alte aspettative sono state rispettate.
Tra i punti di forza principali mostrati dai Non Voglio Che Clara tra il 2004 ed il 2006 c’era senz’altro quello di una cristallina chiarezza di identità . Senza compromessi né equivoci, i bellunesi erano fatti alfieri di uno stile votato al recupero di quel lato della tradizione cantautorale italiana fatto di delicatezza del suono, rotondità delle melodie, romanticismo nei testi ed una sensazione generale di agrodolce disincanto. Il loro spirito tanto nazionalista quanto vintage li rendeva una vera e propria mosca bianca in un periodo in cui sembrava un must per i gruppi indipendenti italiani mantenersi al passo coi tempi e proporre un suono che ambisse a trovare posto in un contesto internazionale. In questi ultimi anni altri gruppi, ognuno a modo proprio, hanno deciso di celebrare i fasti del passato piuttosto che inseguire invano il presente, ma nel frattempo di nuovi album dei Non Voglio Che Clara non se ne ascoltavano. Per loro, tornare rappresentava un rischio sotto due diversi punti di vista: se si fossero riproposti tali e quali ai loro lavori precedenti, avrebbero dato l’impressione di avere uno stile ormai troppo datato; se si fossero modernizzati nel suono, avrebbero potuto perdere la chiarezza di identità di cui sopra. L’ideale sarebbe stato un suono evoluto ma tale comunque da non snaturare l’anima della band: ebbene, questo ‘Dei Cani’ ha compiuto perfettamente la difficile missione a cui era chiamato.
La svolta dal punto di vista sonoro è evidente fin dal primo ascolto. I leggiadri girotondi tra chitarra acustica e pianoforte sono solo una componente minoritaria di arrangiamenti che comprendono anche un lato elettrico ed uno digitale, nonché un viavai continuo tra pulizia e sporcizia e tra morbidezza e spigolosità grazie al sapiente dosaggio di ognuno dei tre aspetti evidenziati, che si alternano e si incrociano tra loro in modo sempre diverso. Dolcezze semiacustiche, abrasività elettroniche e robustezze elettriche convivono così gomito a gomito, creando una gamma di sfumature amplissima che già da sola stimola in continuazione l’orecchio dell’ascoltatore. Naturalmente, perché questa perizia dal punto di vista della produzione artistica non risulti fine a se stessa, dev’essere coordinata con una scrittura, un’intonazione vocale e dei testi che ne sappiano valorizzare la forza ampliando anch’essi il loro modo di proporsi. Per quanto riguarda il cantato, non solo Fabio De Min ripresenta la propria abituale espressività , anche quando assume un timbro più duro rispetto alle abitudini del passato, ma il volume della sua voce più di una volta è bilanciato con quello degli strumenti in modo audace, nel senso che questi ultimi arrivano a coprire il cantato quasi completamente, ma lasciando ad esso lo spazio strettamente necessario per creare un’atmosfera unica ed affascinante, che si incastra bene nei momenti in cui invece la voce torna al proprio usuale ruolo di primo piano.
Il songwriting, da par suo, non si limita alla natura retrò che aveva fortemente caratterizzato le prove precedenti, ma si estremizza ora proponendo melodie decisamente chiuse e sfuggenti, ora invece virando verso un pop puro. Anche i testi aumentano il proprio raggio d’azione, non solo svariando tra diverse tematiche relative all’ambito sia sentimentale che di esplorazione della propria interiorità , ma anche gettando in più di un momento uno sguardo più o meno intenso su problematiche sociali, tra una quotidianità fatta di disagi, le difficoltà nel difendere i propri diritti sul lavoro ed i pregiudizi nei confronti dell’immigrazione. Il disco, in definitiva, mostra una band a tutto tondo, che sa trovare nuove soluzioni ad ogni livello e sa gestire sempre al meglio un ventaglio di idee invidiabile per quantità e qualità .
Con tutte queste novità , però, come si può affermare che i Non Voglio Che Clara sono rimasti fedeli alla propria natura? Si può farlo perché le corde dell’emotività dell’ascoltatore toccate da ‘Dei Cani’ sono le stesse rispetto ai dischi passati, ovvero quella via di mezzo tra realismo e pessimismo che spinge a vivere gli slanci affettivi quasi sempre con moderazione e solo raramente con vero trasporto, quella voglia di sognare velata da una strisciante consapevolezza che è più facile che le cose vadano male piuttosto che bene, quel vivere la vita sperando nel meglio senza mai davvero crederci e sapendo invece che, nelle difficoltà , gli unici che ci aiuteranno senza esitazione saremo noi stessi. I Non Voglio Che Clara sono sempre stati soprattutto questo ed il ritrovare lo stesso spettro emotivo in un impianto, sia musicale che di immaginario, così cresciuto e rinnovato è indubbiamente il pregio migliore di questo disco meraviglioso.
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