INTERPOL SECONDO DELROCK

Gli Interpol avevano promesso un ritorno alle radici e nuovi suoni meravigliosi, qualcosa che ricordasse il primo mitico album e disegnasse paesaggi ancora più grandiosi e magniloquenti. Tutto vero, tutto falso. Interpol somiglia a Turn On The Bright Lights ma somiglia anche ad Antics, a Our Love To Admire, perchè questa band di ex fenomeni in cerca di futuro non ha mai scritto grandi canzoni ma ha trovato solo un fortunato sound in un certo momento della storia rock moderna – e si sa com’è la scena oggi, sono attimi, sono quarti d’ora warholiani, sono chalk marks in a rain storm, per dirla come la zia Joni che (per fortuna) qui non c’entra niente. Il sound è rimasto, come no?, si sente forte fin dalla livida copertina, si coglie nella claustrofobica ambience di tanti pezzi, con quella chitarra distorta e la voce che urla la sua impotenza, pigiata/soffocata nel sogno di un sogno; quello che non c’è più è l’entusiasmo, la stupita ammirazione del pubblico passato a venerare altri effimeri idoli, altri great white wonders che il prossimo refolo di rock spazzerà via, con un misto di ingenuità, indifferenza, disinvoltura che è un po’ il ritratto della nostra epoca.

L’album è stato registrato agli Electric Lady Studios di New York nella primavera 2009 e lasciato poi decantare fino a oggi, forse per sfruttare l’effetto del tour con gli U2 peraltro non fortunatissimo. E’ l’ultimo disco del bassista Carlos Dengler, evaso dalla band poco dopo la fine delle registrazioni e oggi su una personale nuvoletta di sogni e progetti. In sua vece gli Interpol hanno ingaggiato David Pajo e Brandon Curtis (un bassista e un tastierista) ma questi sono dettagli, credete, davanti a quel fiore che non cresce, a quel monolite di acciaio e angoscioso spleen che è la musica (rock?) degli Interpol.