Foto rock, omaggio a Jim Marshall
Jim Marshall aveva 24 anni e idee confuse sul futuro quando un giorno del 1960 incontrò per strada John Coltrane, che gli chiese l’indirizzo di un locale. “Ti ci porto io,” fu lesto a rispondere il ragazzo con Leica a tracolla, “se mi prometti che ti fai fotografare”. Trane disse sì e quel giorno Marshall capì cosa avrebbe fatto da grande; perchè dopo quel gigante inquadrò nel suo obiettivo Monk, Miles e i protagonisti dei grandi festival jazz, e Bob Dylan, incrociato anch’egli per strada quand’era un cucciolo d’artista, e tutti i grandi del rock negli anni più sfolgoranti- che furono tanto luminosi, è bene precisarlo, anche per la puntuale testimonianza di fotografi come il nostro Jim e come Henry Dilz, Elliott Landy, Ed Caraeff, Norman Seeff, e cito giusto i primi che mi si affacciano in mente.
Jim Marshall è morto il 24 marzo scorso in un hotel di New York, in circostanze non chiarite. Era ancora in pista, girava a presentare l’ultimo libro dei vari pubblicati da quando si era convinto di non essere “un cronista con la macchina fotografica”, come aveva ripetuto per anni, ma piuttosto uno storico, che aveva avuto la fortuna e la bravura di documentare con la sua Leica i momenti più grandi e irripetibili del rock e del jazz. Il suo archivio era impressionante, anzi è, perchè gli sopravvive fino a quando ci sarà voglia di vedere quegli anni: Monk in azione furente e Monk rilassato, in papalina, Davis nell’intimità e all’angolo del ring, nella palestra dove coltivava la “nobile arte”, Jimi al festival di Monterey, in cento pose di chitarra ma finanche alla batteria, e Townshend al corpo libero, a Monterey e San Francisco, e i fiori bianchi di Woodstock e quelli neri di Altamont, gli Stones del 1972, gli Zeppelin degli anni d’oro, i californiani tutti nello splendore dei loro anni giovani e nella vaghezza delle troppe droghe in circolo.
Non amava i set, Jim Marshall, non preparava le luci, di solito non istruiva i soggetti da ritrarre. Era una specie di pistolero fotografico in libera uscita (e una pistola la portava davvero, mi ha raccontato un amico) in attesa che il destino gli facesse trovare la situazione giusta e afferrare quello che Henry Cartier Bresson, un altro con la Leica, chiamava “il momento decisivo”. Come tutti i bravi tiratori, Marshall sapeva che doveva solo rimanere calmo e mirare come sapeva. Forse si sentiva un predestinato, dopo quell’incontro per strada con Coltrane, fatto sta che non sbagliò mai un colpo. Il destino lo portò a Monterey, quei pomeriggi di giugno 1967 quando il rock cambiò pelle e mise la livrea della leggenda, a un metro da Jimi quando bruciò la sua chitarra, come un anno prima lo aveva accompagnato al Candlestick Park di San Francisco al concerto d’addio dei Beatles e come poi avrebbe fatto spingendolo a San Quintino con Johnny Cash, e dalle parti di Woodstock, e in studio, a documentare certe sedute che parevano qualunque e invece no: la prima volta di Santana, la prima di Crosby, Stills, Nash & Young.
Meravigliosi bianco-e-nero, la sua specialità , più rare foto a colori quando proprio era il caso – e a San Francisco, la città che lo aveva adottato all’età di due anni, aSan Francisco negli anni 60 era proprio il caso. (Se avete quel box meraviglioso che è Love Is The Song You Sing, andate a vedere la foto dei risguardi, quella che apre il libro: è uno sfavillante Marshall in technicolor che un giorno del 1966, al Golden Gate Park, ha convocato Quicksilver, Dead, Jefferson, Big Brother e Charlatans per una profetica “foto di classe” prima che le lezioni comincino).
C’è stato un momento nella mia vita rock in cui sono stato ossessionato, letteralmente, da Jim Marshall. Spulciavo centinaia di foto e senza mai sbagliare le preferite erano le sue: quel Miles che bisbiglia con Steve McQueen dietro le quinte di un festival di Monterey, Janis che strangola Grace spianando un ghigno all’obiettivo, quel Johnny Cash con il dito medio rivolto al mondo che vale più di una biografia & documentario sul Man In Black. Le guardavo con amore, le selezionavo, poi con il magone le scartavo: Jim era sempre irraggiungibile, un lusso per chi come me zappianamente lavorava sempre con low low budget. (Mi è capitato ancora di recente, cercando uno scatto esemplare per Woodstock: una foto che non avevo mai visto del palco in costruzione, con il cielo ancora azzurro, un attimo prima che arrivino gli artisti e che la storia cominci – semplicemente favolosa. Rapido check finanziario e ritirata strategica; il maestro voleva una cifra esagerata).
Un giorno mi impuntai e gettai il cuore oltre ogni budget, per quella foto di Jimi a braccia spalancate e occhi chiusi, al soundcheck di Monterey, che sceglierei tra milioni a racchiudere in uno scatto, uno solo, la musica rock e tutta la sua storia – la trovate in copertina di una vecchia storia illustrata del rock di Rolling Stone edita da Arcana (quella vera). Presi contatto con lo studio, mi feci comunicare il preventivo e, dopo avere incassato il colpo, richiesi le coordinate bancarie. Il giorno seguente mi arrivò una telefonata a casa. Era lui. “Mi hanno detto che vuoi pagarmi con la banca. Sei scemo?” Non ho buttato via quel vecchio telefono, sapete?, lo conservo e non per modernariato ma perchè lì dentro, un giorno, ci ha parlato Jim Marshall. “Perché scemo? Come faccio a farle avere i soldi dall’Italia a San Francisco?” “Metti i dollari in una busta”, rispose lui con il tono di chi proprio con uno scemo aveva a che fare, “chiami l’UPS e me li mandi.” Okay Jim, semplice Jim. Eseguo. Due giorni dopo mi richiamò l’assistente. “E’ arrivato tutto, molto bene. Dice che vi manderà una foto per ringraziarvi.”
Quella foto poi non è arrivata ma non ho mai avuto il coraggio di sollecitarla. Jim Marshall aveva la fama di un tipaccio, e anche se sono convinto che Zappa avesse ragione quando diceva che chiunque abbia un carattere ha un cattivo carattere, be’, meglio girare alla larga. Anche negli obituaries che ho letto Marshall viene raccontato così: come un intemperante, un lunatico capace di passare dalla dolcezza e commozione all’ira più bollente, complice degli artisti che fotografava ma capace di affrontarli violentemente, come quella volta che Barbra Streisand cercò di dargli dei limiti e lui prima la insultò poi prese cappello – peggio per lei, non certo per Jim Marshall. I maligni sostengono che il suo segreto fosse quello di condurre la medesima vita sregolata dei suoi soggetti, e che molte foto celebri siano nate quando gli altri fotografi erano ormai a dormire. Lui ha sempre giurato di non avere mai scattato sotto droga, lasciando i vizi al “dopo”; ma non ha mai negato di avere ecceduto, di essere diventato capriccioso e arrogante proprio come una rockstar, e di avere buttato via per la cocaina un pacco alto così di dollari e vent’anni forse di carriera.
C’è in effetti un buco nella nostra storia, dai primi anni 70 agli ultimi 80, ci sono un matrimonio rovinato e una vita di pura sopravvivenza per lungo tempo; fino alla lenta rinascita, alla rivalutazione del proprio lavoro come “storico”, al riavvicinamento alla musica con nuovi scatti per Ben Harper, John Mayer, i Red Hot Chilli Peppers. Ma stiamo parlando di una coda, e nella coda ci sono anche i libri e le mostre (mai in Italia, e in Europa solo dal 2005), e il sito MarshallPhoto.com, che al momento non è operativo in attesa, credo, che si districhino le questioni ereditarie.
Jim Marshall era un predestinato, dicevo prima, e valutandolo così trovo semplicemente perfetto che abbia mollato il colpo all’inizio degli anni 70, quando una certa idea di rock muore e i fotografi della sua scuola, i liberi pistoleri nella open prairie della musica giovane, spariscono o vengono ridotti in cattività . Cominciano le limitazioni ai concerti, trionfano i servizi posati, la “fotografia artistica” vera o presunta sostituisce il nudo reportage. Troppo complicato per un fuorilegge che si muoveva all’impronta, che aveva catturato il dito di Cash gridandogli istintivamente “uno scatto per le guardie!” e al Candlestick Park aveva aspettato i Beatles alla fine dello show non per appuntamento ma perchè una vocina gli aveva detto di stare lì, che qualcosa sarebbe accaduto. Accadde che i Beatles quella sera se ne andarono, mai più in scena, e ad aspettarli giù dall’ultimo palco per sempre c’era lui, Jim Marshall, con la sua Leica da tiratore scelto. Tutta colpa di John Coltrane e di quel fortuito incontro in una San Francisco che andava incontro al suo decennio più glorioso. Chi avrebbe mai potuto immaginarlo?
di Riccardo Bertoncelli
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