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Generale Lee said in Aprile 19th, 2010 at 14:00

Anais Mitchell per ROCKOL:

Se la parola “concept” non piace più (vedi la recente intervista concessa a Rockol da David Byrne), vada allora per “ciclo di canzoni”: fatto sta che all’ascolto episodico, frettoloso e selettivo prediletto dalla generazione iPod molti artisti stanno reagendo con opere che ambiscono a farsi ascoltare dall’inizio alla fine, e in cui il tutto ha (o dovrebbe avere) più valore delle singole componenti. E’ l’elogio della lentezza, della riflessione, dell’approfondimento “culturale”, e chissà se troverà orecchie disposte a cogliere la proposta, di questi tempi. La fila, intanto si ingrossa: dopo il disco-musical su Imelda Marcos di Byrne e Fatboy Slim, con “Leave your sleep” Natalie Merchant ha scelto il passo lungo del doppio album per musicare opere più o meno note della letteratura angloamericana, mentre con “San Patricio” i Chieftains hanno deciso di raccontare una pagina di storia dimenticata. Anais Mitchell, giovane “righteous babe” ingaggiata nella scuderia di Ani DiFranco, non è da meno, con questa singolare “opera folk” liberamente ispirata al mito greco di Orfeo ed Euridice trasposto all’epoca della Nuova, Grande Depressione (quella attuale, post bolla finanziaria e recessione economica internazionale). Il disco esce a fine mese, ma le copie promozionali circolano da mesi e dopo un congruo numero di ascolti possiamo anticipare che si tratta, finora, di una delle più belle sorprese dell’anno. La Mitchell si era fatta conoscere come cantautrice sensibile e un po’ svagata, eccentrica il giusto ma un poco esile, piuttosto monocromatica nel suo minimalismo acustico e in virtù di quella vocetta acerba e infantile che la rende inconfondibile (pensate a una Victoria Williams con vent’anni di meno). Qui invece la ritroviamo matura e coraggiosa; avventata, forse, ma con un’idea forte a cui sorreggersi. Si sente perfettamente a suo agio (lo ha dichiarato lei stessa) nel ruolo di regista che s’è ritagliata per l’occasione, accanto al chitarrista/arrangiatore/compositore Michael Chorney e al produttore Todd Sickafoose (il contrabbassista della DiFranco). Dà voce alla sfortunata protagonista della storia, la ninfa Euridice, ma lascia molto spazio alla musica e agli altri cantanti/attori protagonisti che si alternano al proscenio: la stessa Ani (nel ruolo calzante di Persefone), l’introverso ed emotivo Justin Vernon dei Bon Iver (Orfeo), il sepolcrale Greg Brown (perfetto per la parte di Ade, sovrano del Regno dei Morti), Ben Knox Miller dei Low Anthem (Hermes il messaggero); un piccolo who’s who, come si vede, della scena acustica-alternativa d’America di questi ultimi anni. “Hadestown” è nato come spettacolo itinerante low budget che Anais e una congrega di amici hanno portato in scena in due riprese nelle enclavi più radicali del Nord Est americano, ma la trasposizione discografica non ne soffre affatto. C’è colore, azione, chiaroscuro e movimento a sufficienza per tenere desta l’attenzione lungo i suoi 57 minuti di durata. Fatte le debite proporzioni, si potrebbe quasi parlare di un indie “kolossal”, stante la quantità di voci e di strumenti messi in campo: chitarre (anche “preparate”) e percussioni (più o meno ortodosse), armoniche e harmonium viole e tromboni, banjo e vibrafoni, “orchestre di bicchieri” e rumori preregistrati su nastro che la colorata brigata utilizza con inventiva parsimonia per tentare una rivisitazione moderna e “sperimentale” del mito e della American Music attraverso una inedita combinazione di disinvolto spirito “busker”, folk “da camera” e teatro musicale ricalcato sul modello classico di Brecht e Weill (“His kiss, the riot” l’esempio più eclatante). Dagli anni Trenta delle Andrew Sisters (cui si richiama il coro greco delle Haden Triplets) al cabaret avant garde di Tom Waits (lo shuffle infernale di “Way down Hadestown”), con una punta di Madama Butterfly in salsa hippie-folk (“Doubt comes in”), lo scenario è ampio, intergenerazionale, multistilistico: Anais e i suoi ospiti si muovono in scioltezza tra folk & fingerpicking, jazz & spazzole, vaudeville e ragtime, swing e blues, ricamando intermezzi strumentali (marcatamente ritmici, come “Papers”, o orientaleggianti come “Lover’s desire”), duetti e ballate polifoniche e infilando, tra la vivace apertura di “Wedding song” e il malinconico commiato di “I raise my cup to him”, la solennità di “Why we build the wall” e “When the chips are down” e il terso lirismo poetico di “Flowers”. La sceneggiatura mescola gli spazi pianotemporali (ci sono immagini anche dall’altra Grande Depressione, quella del ’29, con il proibizionismo e i depositi ferroviari abbandonati), la città sotterranea di Ade assomiglia in modo sospetto a una metropoli moderna e alla fine si finisce per ragionare piacevolmente, senza spocchia alcuna e con divertita leggerezza su temi seri e profondi: gli inutili muri che dovrebbero servire a proteggerci dalle ondate di nuovi poveri in arrivo, il conformismo e la paura del cambiamento, l’ottimismo irrazionale della musica che ancora crede di poter commuovere gli animi, muovere le foreste e cambiare il mondo, procurando qualche fremito vitale al Regno dei Morti che sta qui in superficie.

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