At The Cut BY
Chesnutt Vic
Casa discografica: Constellation
Anno: 2009
Come il Cristo stoicamente sofferente messo in copertina, in chiasmo con quel suo volto così stanco ed emaciato, Vic Chesnutt mostra le ferite di un corpo e di un’anima che è fin troppo facile definire tormentati. La voce è quella di un bluesman sottile, che riversa i propri lamenti di vita in piccoli grandi capolavori di canzone americana, a cavallo tra folk, jazz, rock e post-rock, ora delicatamente sussurrati (minuti e sparuti come la toccante We Hovered with Short Wings), ora quasi epici, teatralmente cupi (l’iniziale, solenne Coward). Sempre desolate le canzoni di Vic, testimonianza di una disperazione che è tanto una costante di vita quanto una cifra poetica perfettamente dominata. Canzoni sghembe e oblique, “fuori posto” quel tanto che basta a renderle personali, subito riconoscibili, e quadrate, quel tanto che basta a renderle per certi versi già classiche, come “invecchiate” alla nascita, perché vissute, sentite.
Vic prosegue con quest’album la via alla sua arte inaugurata dal debutto su Constellation di North Star Deserter, uno dei dischi più belli del 2007 e una delle prove di cantautorato americano più incisive e intense di questi anni. Ed è ancora l’intensità la chiave di questo disco, condotto con gli stessi compagni del precedente (Guy Picciotto ex-Fugazi, i Silver Mt. Zion ex-Goodspeed You! Black Emperor) e come il precedente teso ad asciugare, e allo stesso tempo irrobustire, la parte musicale al servizio delle parole di Vic. Parole da cui trasuda lucidamente una consapevolezza, quella di aver “flirtato” tutta la vita con la morte, di averla rincorsa, corteggiata, vagheggiata. Alla fine Vic la morte l’ha raggiunta.
La sua è una storia tragica. Figlio adottivo, la musica come rifugio fin da piccolissimo, a diciotto anni, ubriaco (e Drunk sarà il titolo di un amarissimo disco del 1994), si va a schiantare con l’auto e resta per tutta la vita costretto su una sedia a rotelle. Nei Novanta la “scoperta” da parte del mondo indie che conta, patrocinata dal concittadino Michael Stipe dei R.E.M. che gli produce due dischi tra il 1990 e il 1991. Una lenta anabasi per il Vic artista, fino alla maturità della svolta con la Constellation, e – forse – qualche speranza ad affacciarsi anche sulla vita del Vic uomo: il matrimonio con la bassista Tina Whatley.
L’ennesimo tentativo di suicidio però, una overdose di farmaci, lo ha portato al coma la vigilia di Natale e, “finalmente”, il pomeriggio del giorno successivo, alla morte. La retorica del coccodrillo è sempre in agguato, ma con Vic il gioco non funziona: che la sua arte sia grande è cosa di cui si accorge in un solo attimo (e cioè al primo ascolto) anche chi, come il sottoscritto, ne conosce solo superficialmente l’opera. Il suicidio di Vic è un’inutile tautologica appendice a quella dichiarazione di impossibilità della vita (perché di impossibilità di amare questa vita) che erano le sue canzoni.
Gabriele Marino
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