Un ritaglio delle celebrazioni rock 1969 è toccato anche a David Bowie, che in quel fatidico anno racimolò la sua prima gloria con una canzone che tutti ricordano, Space Oddity.
E’ una storia buffa e per certi versi incredibile. Bowie aveva allora 22 anni, cantava e suonava da quand’era teenager e aveva già fatto il periplo dei generi folk rock dimostrando che una sola cosa gli interessava davvero: avere successo. Era stato beat radicale e di compromesso, menestrello Donovaniano e cantautore alla francese, musicista teatrante e mimo, sperimentatore hippie – senza che nessuno lo degnasse di vera attenzione. A un certo punto provò con il pop, componendo una scaltra canzone sci-fi ispirata a 2001 Odissea nello spazio, il film di Kubrick appena uscito, dove con molti languori si parlava di un astronauta perduto nello spazio. Erano i mesi del primo viaggio umano sulla Luna e qualche campanello avrebbe potuto suonare nella testa dei responsabili discografici. Invece Tony Visconti, il produttore che da qualche tempo aveva in carico il giovane rampante, si rifiutò di lavorare su quella traccia; “semplicemente non mi piaceva”, avrebbe poi confessato, invitando il ragazzo a prendere altre vie, senza facili scorciatoie. David tenne il punto, la produzione passò a Gus Dudgeon e la melodrammatica storia del Major Tom che diventa polvere di stelle finì nelle classifiche, come tutti meno l’esigente produttore avevano previsto.
Visconti però credeva in quell’ambizioso ragazzo e si rifece poco dopo, accettando di produrre il suo secondo album, in cui l’inevitabile Space Oddity veniva contornata da tutta una serie di canzoni più ricercate e meno furbette. Avviso ai naviganti. Questo del 1969 (il long playing uscì a novembre) non è ancora il Bowie superstar da libri di storia, l’androide pel di carota che volerà alto sul culto del glam, “l’uomo caduto sulla Terra”. E’ un giovane inquieto in cerca di una sua identità , ricco di idee ma anche di insicurezze, che ingegnosamente sublima il suo quotidiano in un periodo di grandi slanci e generose “visioni”. In Letter To Hermione e An Occasional Dream rimpiange l’amatissima fidanzata che ha appena perduto, in Unwashed And Somewhat Slightly Dazed e Cygnet Committee sfoga logorroicamente il suo mal di vita e il disagio sociale al cambio di decennio; e in Memory Of A Free Festival celebra un funerale hippy per una sua amata creatura artistica, il Beckenham Arts Lab, dove tante illusioni aveva coltivato tra il 1968 e il 1969 (il free festival non era un frutto della fantasia, si era svolto davvero a Beckenham ad agosto ’69, davanti a 5.000 persone).
In queste cronache della sua vita reale e mentale, Bowie interpreta varie parti: è dolce e quasi mellifluo come il Donovan della maturità o i Beatles del Doppio Bianco, tagliente come il Dylan prima del 1966, o ancora calato nel mondo dei suoni futuri, siano il mellotron e il cembalo elettrico suonati dall’ancora sconosciuto Rick Wakeman o lo stylophone, una curiosa penna sonora che David in persona usa in Space Oddity per calcare la dimensione “futuristica” del pezzo.
Con dispetto di Tony Visconti, l’album non ebbe nemmeno la metà del successo di Space Oddity, anche perchè un po’ ingenuamente scelse di non evocare nel titolo quel fresco hit. Si chiamò invece David Bowie, e nell’edizione americana Man Of World, Man Of Music. Solo nel 1972, quando Bowie sottomise con il suo ambiguo carisma le folle adolescenti di mezzo mondo, solo allora l’album andò a intitolarsi Space Oddity. A quel punto tutto era cambiato: Bowie aveva indossato i panni affascinanti e torbidi di Ziggy Stardust e masticava un rock ben più aspro e disilluso con Mick Ronson (conosciuto proprio durante la lavorazione di quest’album) e gli Spiders Of Mars. Da lì in avanti gloria e polemiche, e una serie di avventure che ancora non hanno avuto termine; rispetto alle quali il 1969 di Space Oddity e del secondo LP rappresenta una importante, incerta, curiosa introduzione.
La nuova edizione di David Bowie aggiunge un secondo CD con una fila di demo, alternate mix, facciate B e qualche inedito riferiti non solo ai brani dell’album ma un po’ a tutta quella stagione prima del decollo. Bello il recupero della versione lunga ed elettrica di Memory Of A Free Festival, divisa tra le due facciate di un 45 del giugno 1970: è un’esecuzione tutta diversa rispetto all’album, e spicca la chitarra del nuovo complice Mick Ronson. Interessante anche la saga di Space Oddity, proposta in un inedito demo del gennaio 1969 (uno dei primi, solo Bowie e John Hutchinson) e ribadita in italiano, Ragazzo solo, ragazza sola, in una full lengthstereo version che i curatori assicurano inedita. La storia del singolo italiano e della traduzione di Mogol è un pezzo di storia della canzone (o dell’operetta), e nelle note Kevin Cann la racconta bene. Peccato che si ostini a chiamare Mogol, chissà perchè, Ivan Mogul, confermando che i britanni, quando si interessano di faccende discografiche italiane, non ne pigliano una.
Riccardo Bertoncelli
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