Retrospective: Stone Roses, ‘The Stone Roses’ (1989)
Come farne uno e poi sparire. Ma non uno qualsiasi, intendiamoci. Uno di quelli che ti bastano per lasciare tutti di sasso, per entrare nell’immaginario collettivo della gente, per far si che tutti si ricordino di te.
La partita è Bari – Inter, la stagione 1999-2000. Hugo Enyinnaya riceve palla dai quaranta metri, dà una breve occhiata ad Angelo Peruzzi e poi scaglia la palla oltre la sua porta, segnando l’uno a zero dopo appena sette minuti. Il Bari quel giorno portò a casa tre punti con il risultato di 2-1, Cassano si creò una reputazione nel calcio italiano, grazie ad un altrettanto spettacolare gol, mentre per Enyinnaya quello fu il primo come l’ultimo momento di gloria. Successivamente non riuscì mai a sfondare e la sua carriera sprofondò inesorabilmente, ma tutti i tifosi del Bari lo ricordano come un mito.
Come chi, per usare un paragone fin troppo abusato, quello tra rock e pallone, nel 1989 pubblicava il suo disco omonimo, ‘The Stone Roses‘.
Sono passati vent’anni, ed anche troppe storie per essere raccontate tutte. E’ passata la nostra generazione, archiviata da Noel Gallagher mentre scrive ai suoi fans che gliOasis sono storia vecchia, che è ora di andare avanti. Prima o poi anche i più testardi arrivano a fare la cosa giusta. Come il compimento di un cerchio, o la consegna delle chiavi (a chi, poi, lo lascio immaginare a voi) gli Oasis hanno finito quello che i Rosesavevano iniziato con il disco che è, a detta di qualcuno, il migliore nella storia della musica inglese, prontamente ristampato lo scorso mese nelle più lussuose edizioni.
Nel 1989, la scena britannica era fondamentalmente priva di alcuna band di primo piano. Il fermento era tutto per la nuova musica, per quella generazione chimica che impazzava in tutte le discoteche inglesi. E’ forse per questo che il disco degliStone Roses colpì così nel segno: accontentava i Ravers e risvegliava i Modsdal loro torpore.
Fu infatti Squire, appassionato dell’astrattismo di Jackson Pollock, a modellare il sound e l’immagine ‘sopra le righe’ del gruppo, a partire dalla copertina del disco, per finire con i secchi di vernice lanciati nella sede della Silverstone Records, quando la band ruppe il contratto per il loro tribolato, sfortunato, secondo e ultimo disco. Inutile dire che non ebbe il successo del primo.
Il debutto, invece, fu tutt’altra storia. Undici canzoni appiccicate insieme da qualcosa di più di un ottimo mixaggio, da un magma musicale fortissimo, un esplosione colorata rarissima da trovare in un disco di debutto. Un disco, come detto molte volte, uscito nel posto, nel tempo e nel modo giusto. Tra tutti i dieci potenziali singoli, quelli scelti furono inizialmente ‘She Bang The Drums’, ‘Made of Stone’ e ‘I Wanna Be Adored’, seguiti a lungo termine da ‘Waterfall’ e ‘I Am The Resurrection’.
La scelta è fondamentalmente ricaduta sui pezzi più vicini alla forma ‘canzone’, adottata dalla band di Manchester, in controtendenza con i concittadini Happy Mondays e Charlatans, che preferivano approcci più dance. Forti le radici con la tradizione del pop-rock d’oltremanica, che sembra una lunga catena, dove l’anello precedente erano stati gli Smiths, da cui iRoses riprendono la passione per le liriche drammatiche: “When the streets are cold and lonely / And the cars they burn below me / Are you all alone / Are you made of stone?â€
La loro acidità psichedelica, unita ad una spiccata attenzione alle melodie pop ed una sezione ritmica trascinante, hanno indirizzato un intera generazione di musicisti a suonare in un certo modo. Albarn, Ashcroft, Burgess, Cocker, Gallagher: nel giro di cinque anni, le facce di questi inglesacciworking class infesteranno le copertine di qualsiasi rivista. E chissà se, nell’anno del gol di Enynnaya, Squire e Reni si fossero veramente uniti agli Oasis, orfani di due membri. Chi può dire di cosa staremmo parlando adesso.
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